Neuropsicomotricità. A prima vista può sembrare un termine complicato, difficile magari da ricordare. Ma di che cosa si tratta in poche parole?

Partiamo dall’etimologia della parola “psicomotricità”: da essa si può desumere che si sta facendo riferimento ad un settore della riabilitazione che riguarda sia la sfera psicologica che quella motoria e dunque, nell’insieme, alla stretta ed inevitabile relazione che intercorre tra le due polarità di corpo e mente. Questo termine ha avuto una sua profonda evoluzione nel tempo, fino ad arrivare al significato che andiamo a conferirle attualmente, considerando la neuropsicomotricità come una disciplina che punta a valorizzare il bambino come ESSERE DI GLOBALITÀ, che manifesta e realizza sé stesso attraverso la pienezza della propria azione nel mondo, incarnata solitamente nel GIOCO SPONTANEO.

Già Platone riconosceva che “si può conoscere di più su un bambino in un’ora di gioco che in un anno di conversazione” e con questa intuizione si sottolineava come, soprattutto nel primo decennio di vita, il linguaggio con cui il bambino esprime sé stesso non è tanto quello verbale, ma è proprio quello del CORPO, del MOVIMENTO e dell’AZIONE che si concretizza nel gioco. Per il terapista della Neuro e Psicomotricità il gioco diviene sì uno strumento e una chiave di lettura fondamentale per indagare il mondo psichico ed emotivo dei bambini, ma allo stesso tempo, la sua evoluzione positiva diventa un obiettivo terapeutico, in quanto campo primario in cui vengono messe in pratica le COMPETENZE EVOLUTIVE del bambino stesso. Le attività motorie, ludiche ed espressive corporee costituiscono infatti le modalità comunicative privilegiate dal bambino e quando queste sono agite e vissute con il terapista possono attivare un progressivo approfondimento della CONOSCENZA DEL SÉ e delle proprie POTENZIALITÀ SIMBOLICHE E COGNITIVE.

Il gioco permette dunque di sviluppare abilità motorie, cognitive e sociali, ma è inoltre e senza dubbio un’importante espressione della VITA AFFETTIVA del piccolo.

Possiamo dunque affermare che la Terapia Neuropsicomotoria è una branca della Medicina Riabilitativa che si occupa della prevenzione e soprattutto del recupero funzionale e/o del potenziamento motorio, cognitivo e comunicativo e relazionale del bambino. È una disciplina che ha come obiettivo finale quello di permettere INTEGRAZIONE ARMONICA dei diversi aspetti (motori, funzionali, affettivi, relazionali e cognitivi) che consentono di accompagnare il processo di crescita e di ristabilire un’immagine di sé positiva, integrata, solida e strutturata, che favorisca scambi comunicativi ricchi e creativi con l’ambiente e con le persone che lo popolano.

Il presupposto di fondo è che il piacere intrinseco alla possibilità di incidere sull’ambiente attraverso azioni, gesti e/o parole e relazioni, funzioni per il bambino come uno stimolo a muoversi, esprimersi e comunicare utilizzando il suo patrimonio funzionale, anche quando questo non sia completamente integro.

Nella seduta di psicomotricità vengono incoraggiate le ABILITÀ ESPRESSIVE e prese in considerazione le peculiari caratteristiche di ogni soggetto, a seconda della sua personalità, della tappa evolutiva che sta attraversando e considerando i limiti dovuti ad una eventuale patologia.

Quando è utile e a chi si rivolge quindi la terapia psicomotoria?

La terapia neuropsicomotoria è adatta in generale nei casi in cui si verificano rallentamenti nel processo di maturazione neuro-psico-motoria e si rivolge solitamente ai bambini di età compresa tra i 0 e i 18 anni. Il Terapista della Neuro e Psicomotricità, oltre alle attività di RIABILITAZIONE (ripristino di capacità “compromesse”) e abilitazione (acquisizione di funzioni non emerse), svolge anche interventi di PREVENZIONE: si tratta di situazioni in cui o è stato riscontrato il rischio di sviluppare una problematica, oppure il bambino con difficoltà viene emarginato dal contesto sociale. È dunque indicata quando sono presenti:

– disturbi dell’espressività motoria;

– ritardi dello sviluppo psicomotorio;

– disabilità intellettive;

– difficoltà relazionali (aggressività o inibizione);

– difficoltà comportamentali;

– disturbi della regolazione;

– sindromi genetiche;

– patologie neuromotorie (ad esempio PCI e distrofie);

– disturbi specifici dell’apprendimento.

© Dott.ssa Chiara Messori